Stop allo storytelling, benvenuto allo storydoing

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Le aziende raccontano storie, o meglio, per anni hanno raccontato storie.

Hanno costruito universi narrativi, creato manifesti di marca, disegnato sogni e aspirazioni intorno ai loro prodotti. Ma oggi questo non basta più. Nel rumore del mercato, tra infinite narrazioni autoreferenziali, le persone non vogliono solo ascoltare: vogliono partecipare, vivere, agire. È in questo spazio che nasce lo storydoing, l’evoluzione naturale dello storytelling, ma soprattutto il suo superamento strategico.

Dallo storytelling allo storydoing: una rivoluzione semantica e culturale

Lo storytelling è narrazione. Lo storydoing è comportamento.

Lo storytelling crea un immaginario. Lo storydoing lo rende esperibile.

Se lo storytelling costruisce senso attraverso le parole, lo storydoing lo costruisce attraverso l’azione.

In altre parole, lo storydoing è la traduzione operativa della promessa di marca: il momento in cui il brand diventa “performativo”, incarnando i propri valori in esperienze tangibili, iniziative concrete e pratiche coerenti con la propria identità. Non è più una questione di dire chi sei, ma di dimostrare ciò che sei – e di farlo in modo che le persone possano farne parte.

La crisi del racconto e la nascita dell’esperienza

Viviamo in un ecosistema mediatico saturo, in cui le narrazioni pubblicitarie si moltiplicano fino a dissolversi nella noia. L’iper-narrazione ha generato una crisi di credibilità: le persone non si fidano più dei messaggi, ma dei comportamenti. In questo scenario, il valore simbolico del brand si costruisce sempre meno attraverso ciò che dice e sempre più attraverso ciò che fa.

Non a caso, gli studi di branding contemporaneo evidenziano come i marchi che investono in esperienze reali e coinvolgenti generino una fedeltà fino a tre volte superiore rispetto a quelli focalizzati esclusivamente sulla comunicazione tradizionale. Perché l’esperienza, al contrario della parola, non si racconta: si vive, si ricorda, si condivide. È una narrazione incarnata.

Lo storydoing come strategia di coerenza

Alla base dello storydoing c’è un principio cruciale: coerenza tra purpose e pratica.
Il brand non può più limitarsi a enunciare valori; deve renderli operativi in ogni gesto, ogni interazione, ogni dettaglio della propria presenza nel mondo.

Un marchio che parla di sostenibilità ma produce spreco non ha una narrazione: ha una contraddizione. Uno che promette inclusività ma non la pratica, non ha una storia: ha un inganno.

Lo storydoing obbliga le aziende a un esercizio di verità. Ogni iniziativa deve essere il riflesso coerente della visione di marca. Ecco perché i brand che adottano questo approccio non costruiscono solo campagne, ma ecosistemi esperienziali, dove la promessa si manifesta in azione, il messaggio diventa cultura, e il pubblico si trasforma in comunità.

Dalla marca come narratore alla marca come piattaforma

Il paradigma dello storydoing ridefinisce il ruolo della marca: da narratore a abilitatore di esperienze.
L’azienda smette di essere il centro del racconto e diventa la piattaforma che consente agli altri — clienti, partner, comunità — di viverlo in prima persona.

Nike, con la sua app Nike Run Club, non racconta il potere dello sport: lo fa vivere, creando un ecosistema dove ogni utente può incarnare il messaggio “Just Do It”.
Patagonia non parla di attivismo ambientale: lo pratica, donando parte dei profitti e sostenendo cause reali.
IKEA non descrive il valore dell’appartenenza domestica: lo costruisce con esperienze collettive, laboratori, iniziative locali.

Lo storydoing è questo: trasformare la retorica in azione, l’immaginario in impatto, la promessa in partecipazione.

Le quattro leve operative dello storydoing

Purpose attivo

Ogni azione deve derivare da un “perché” autentico. Il purpose non è un payoff, ma una direzione strategica.

 

Esperienza immersiva

Lo storydoing vive attraverso esperienze memorabili, multisensoriali, dove l’utente diventa co-protagonista.

Comunità partecipativa

Le persone non sono pubblico, ma attori. La marca crea connessioni e abilitazioni, non semplici messaggi.

Continuità narrativa

Ogni azione deve essere leggibile come parte di una narrazione coerente e riconoscibile nel tempo.

In sintesi, lo storydoing non sostituisce lo storytelling: lo potenzia, lo radica nella realtà, lo rende credibile.

 

L’IMPATTO SUL BRANDING ESPERIENZIALE

Il branding esperienziale tradizionale mirava a generare emozione.
Lo storydoing, invece, mira a generare trasformazione: cambia percezioni, abitudini, persino comportamenti sociali.
Quando un brand diventa un agente di cambiamento esperienziale, smette di essere un’entità commerciale e diventa un attore culturale.

In un mondo in cui le marche sono percepite come istituzioni sociali, la capacità di agire in coerenza con i propri valori è la vera misura del capitale reputazionale.
Lo storydoing è, dunque, la forma più evoluta di branding: non più una costruzione di immagine, ma una costruzione di senso vissuto.

Dal dire al fare, dal fare al significare

Lo storydoing rappresenta la maturità del pensiero di marca. È la fase in cui il brand diventa organismo, esperienza, azione collettiva.
Non si tratta di abbandonare la narrazione, ma di superarla attraverso la prova concreta: di dimostrare, ogni giorno, che la propria storia è viva, respirante, condivisibile.

In definitiva, non vince chi racconta meglio, ma chi fa vivere meglio la propria storia.

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